Al
Posto detto "Timpa"
Una sera del mese di dicembre ci riunimmo nel salotto
del medico condotto, perchè si era mosso il levante. Il
levante è un vento che amano molto i cacciatori di tordi,
perché quando spira, nei pressi del mio paese - e precisamente
sulle falde delle serre di Giffone -, i tordi arrivano a
migliaia da tutte le parti e si riversano su quelle falde per
passarvi la notte.
Il medico, appassionato di caccia, desiderava un bel
posto che non lo facesse rimanere col fucile appeso alle
spalle, perciò decidemmo di occupare per lui il posto chiamati
"Timpa". Si doveva, però, mandare qualcuno di buonora per
occupare la "Timpa", perché quel luogo, quando il levante si
sveglia, fa gola a migliaia di cacciatori della Piana. Due
uomini che prendevano parte alla riunione si offrirono
volontari per andare sulle montagne ad occupare la
"Timpa".
Il vento quella sera sibilava e gli oliveti le cui
foglie scrosciavano, resistevano alla furia del levante,
mentre le olive ormai mature coprivano di nero il suolo
sottostante. Noi, riuniti, eravamo felici pensando
all'indomani, ed ognuno di noi sperava che il vento
continuasse a soffiare. Erano le venti e trenta quando ci
salutammo. Saverio e Michele si armarono di fucili, di
bossoli, di fiammiferi e di una bottiglia di whisky per bere
durante la notte nel caso sentissero freddo, sebbene
indossassero cappotti pesanti. Sulla montagna, dormire di
notte all'aperto come le pecore all'addiaccio, era
un'esperienza nuova; perciò era bene pensare a tutti
gl'inconvenienti. Saverio, un uomo di venticinque anni, figlio
di un boscaiolo di Giffone, che abita nel mio paese perché ha
sposato una ragazza di Tritanti, è un giovane biondo, con gli
occhi azzurri, il corpo agile e resistente, avvezzo ai lavori
pesanti ed alle intemperie. E' rosso in viso e ratto al passo,
buono e sincero; uno di quegli uomini sani che solo la natura,
la miseria e la fatica del nostro ambiente calabrese sanno
dare. Michele, di più robusta costituzione, fa lo spazzino e
con il povero stipendio tira avanti una famiglia numerosa.
Bonaccione, volgare e ridicolo, maligno e grossolano ad un
tempo, Michele - che era il più anziano dei due volontari -
faceva da guida con una lampadina tascabile. Tutti e due
allegri e contenti, col vento che infuriava e strepitava loro
in faccia, s'incamminarono verso la montagna confondendosi
nella notte rigida e scura.
Nuvoloni neri si erano accavallati quasi per dispetto
ed avevano spento quei corpi luminosi che nelle notti serene
aiutano spesso il viandante. Camminarono scivolando per monti
e valli per circa tre ore e finalmente giunsero nel vallone
della "Timpa". Ormai rimanevano solo pochi metri di
salita faticosa e in breve si trovarono lì, sulla "Timpa".
Così mi raccontò Michele, quando l'indomani io, il medico ed
un altro cacciatore di nome Agostino Andammo a raggiungerli
sulla falde di quella "Timpa". era la prima volta che mi
recavo su quella montagna per cacciare; ma chi ha dato a quel
posto il nome "Timpa", non ha sbagliato, perché per poterlo
raggiungere si deve seguire un viottolo ripidissimo verso la
montagna di fronte. Alla destra del cacciatore c'è un vuoto di
circa cinquecento metri, che fa un po' paura. Comunque, quello
è il miglior posto di caccia nella zona.
I due compagni raggiunsero la meta all'una di notte, e
- stando a quel che disse Michele - sedettero, accesero il
fuoco, si riscaldarono; ma il freddo della montagna si faceva
sentire sempre di più, tanto che il più giovane, Saverio,
disse all'altro: "Michele, beviamo un pò di whisky, perchè mi
pare, questa notte, che non facciamo altro che andare
all'altro mondo e ritornare".
"Sì, beviamo, compare Saverio!" rispose l'altro. "Qua,
bevete voi!" "No, per l'amor di Dio!" "Prima bevete voi che
siete il più anziano."
Michele pensava: "Noi siamo seduti con la schiena
appoggiata alla parete e le gambe penzoloni nel crepaccio; se
approfitto del liquore, può darsi che mi giri la testa e vada
a finire nel vallone e mi ammazzi". Allora portava la
bottiglia alle labbra senza inghiottire il whisky, poi la
porgeva all'altro dicendo: "Bevete, compare Saverio,
questo riscalda più del fuoco". E l'altro: "Sì, bevo, compare.
Bevo, perché sto morendo di freddo," e, presa la bottiglia,
con un sorso ne buttò giù quasi una buona metà.
Non erano passati neanche quindici minuti, che compare
Saverio si ricordò di nuovo della bottiglia, e, rivoltosi al
compagno: "Michele," disse, "pare che il freddo non passi;
beviamo ancora!".
E l'altro: "Sì compare Saverio, beviamo ancora! Ma
questa volta bevete voi per primo". Compare Saverio
ubbidì e si scolò quasi interamente l'altra metà, poi porse
quel poco che era rimasto a Michele, il quale finse di bere il
liquore, e lo buttò per terra. Dopo un po' cercarono di
prendere sonno, ma era inutile: Michele se ne stava
accoccolato alla meglio coi piedi al fuoco e con la schiena
appoggiata alla parete della montagna, pensoso ed un po'
raffreddato: l'altro incominciava a sentirsi il fuoco nelle
vene e, rivoltosi al compagno, disse: "Michele, adesso mi pare
di sentir caldo". E Michele: "Sì, compare Saverio, perché vi
siete ubriacato; state attento a non cadere nel
burrone".
Intanto il pettirosso, col suo canto sottile,
annunziava l'alba, e Saverio si alzò ed incominciò a saltare
come un gatto, tirando di scherma con le spine, tantochè la
mattina era tutto graffiato come se l'avessero scaraventato in
un roveto. Salterellando, a rischio della propria pelle,
diceva parole senza senso alle spine e agli alberi
circostanti; sembrava Don Chisciotte contro i mulini a vento.
Michele, che comprendeva il pericolo, lo chiamava
continuamente, ma invano. Alla fine, dopo essersi sfogato, -
ed era già giorno - Saverio disse: "Michele, lanciate in aria
quella bottiglia vuota e vedrete come la colpisco in pieno,
col mio fucile". Michele lanciò la bottiglia, e Saverio sparò
due colpi, ma la bottiglia rimase intatta. Allora Saverio
Saverio dichiarò che sarebbe andato sul vallone a sparare alle
beccacce. Dopo circa due ore, se ne tornò con un pettirosso
che aveva colpito per caso. Michele si mise a ridere, ma molto
di più ridemmo noi quel giorno, quando li raggiungemmo, verso
le tredici. Li trovammo sdraiati per terra, sembravano
piombati in una catalessi. Michele era sfinito, come se avesse
fatto mille chilometri di corsa; l'altro era trasandato, con
gli occhi gonfi e le pupille arrossate: non riusciva a parlare
chiaramente. Io, il medico e Agostino, ma anche Michele,
ridemmo a crepapelle, poi io porsi loro il pranzo ed una
bottiglia che conteneva due litri di vino. Mangiarono con
avidità, ed anche noi di tanto in tanto prendevamo qualcosa -
non per fame, ma per far loro compagnia. E, bevi tu che bevo
io, in poco tempo la bottiglia fu nelle stesse condizioni
dell'altra.
Finito il pranzo, compare Saverio si allontanò da noi
barcollando, e disse che andava a cercarsi un posto per
cacciare. Michele lo chiamò e gli disse: "Compare Saverio,
andate a dormire; perché oggi, con tanti cacciatori, vi può
succedere una disgrazia". E credo che fece proprio così
Saverio, perché nessuno lo vide sulla montagna. Solo verso
sera si presentò al posto dove avevamo fissato di riunirci, ma
arrivò senza tordi. Era stanco e pareva un pò rimbambito, si
vede che il vino e il sonno lo avevano stordito.
Michele non si mosse, rimase lì col medico, perché
aveva un cane da caccia che obbediva solo a lui. Così, mentre
il medico sparava, Michele mandava il suo cane a prendere i
tordi che cadevano nella "Timpa".
Brano tratto
da
IL
CENTONE
AUTORI ITALIANI CONTEMPORANEI
REGIONE LETTERARIA, BOLOGNA, 1971
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